Fin da ragazzo, studente di pianoforte, ho pensato che non mi sarei ritenuto davvero un pianista finché non avessi eseguito la Quarta Ballata di Chopin. Perché poi proprio quel pezzo? È forse il più difficile e impegnativo del repertorio pianistico? No di certo.
Se vogliamo, possiamo dividere i pianisti tra lisztiani e chopiniani. Liszt per me ha sempre avuto un’aura di vertiginosa inconsistenza, e le sue imprese funamboliche non hanno mai fatto presa su di me; le sue pagine più tragiche poi, estremamente espressive e cupe, mi lasciavano comunque un senso di posticcio, come quei grandissimi, immensi attori gigioni che se recitano il monologo di Amleto sembrano porgere a te, proprio a te, col loro sguardo incantatore e le loro risonanze vocali cavernose, il teschio su cui Amleto parla, e come se fosse il proprio stesso teschio: raccapricciante manipolazione che non si fa scrupolo di utilizzare la domanda più radicale come mezzo per mostrare la propria bravura. Ecco: Liszt per me usa il pianoforte in modo manipolatorio, sostanzialmente finto, per coprire di acrobazie di velocità, di potenza, di sfibratezza di suono un sostanziale nulla.
E no, con Chopin è un altro mondo. Qualsiasi composizione di Chopin non si fa suonare con una mano che non debba superare una qualche scomodità, e se non affronti quella scomodità, e tutte quelle che ci puoi trovare, non puoi davvero capire come si piegano le sue frasi le melodiche, le sue armonie, i suoi contrappunti. Chopin pone costantemente delle domande, tutto ciò che fino a quel punto era stato un percorso lineare nella scrittura pianistica, in Chopin si infrange in una richiesta rivoluzionaria: le mani stiano scomode per capire dove sta il nuovo suono che Chopin inventa sul pianoforte. Il nuovo di sostanza ha bisogno di una una strada specialissima per essere intravisto.
È chiaro che un giovane pianista che subisca il fascino di Chopin in questo modo è un tipo complicato e che non si semplifica la vita. Quindi una cifra esistenziale specifica.
Ma perché la Quarta Ballata?
Qui si entra in un territorio, evidentemente, oscuro. In questa composizione abbiamo un tema breve che gira su se stesso, interrogativo, tra il malinconico e l’ansioso, e si ripete, si ripete, si ripete… in tanti modi diversi. Anche se la Ballata si apre con un tema che sembra arrivare da un altro mondo, da un’altra composizione: sognante, fluttuante, aereo… anche se in mezzo c’è un altro tema che vuole porsi come sereno, anche se non ce la fa, e va a finire in un’eruzione passionale e drammatica…
Insomma, per me entrare in un mondo cosí enigmatico che sembra avvitarsi in passioni che difficilmente trovano definizioni chiare e che chiedono alle difficoltà tecniche di essere risolte in maniera da poter capire meglio dove quella ricerca nell’oscurità vada a parare, e non certo come puri problemi digitali per cui trovare i trucchi efficaci, ecco, tutto questo per me era il Simbolo stesso del perché io volessi davvero suonare il pianoforte.
Ovviamente, ho rinviato per molti anni, direi decenni, la prova. Mai vinta. E questo è in fondo il motivo per cui suono ancora il pianoforte: la sfida di autoconoscenza è mai vinta, perché mai può finire. In tanti anni di attività mi sono incontrato con tanti altri Autori, primo tra tutti Schubert (e, anche qui, le ripetizioni…) che mi hanno posto altre domande e svelato altri mondi. Mi sono anche fatto distrarre dal suonare tante cose, pur interessanti, che in realtà hanno fatto appello alla mia artigianalità più che alla mia vera ricerca. Ma la Quarta Ballata resta questo simbolo. La suono, ormai, ovviamente, come ogni pianista che se la voglia studiare, ma il suo essere per me Simbolo non smette di pormi la sua domanda ontologica: sono un pianista, allora? chi sono? chi non sono?
Alessandro Tenaglia, autore del romanzo Waldemar (Libertà Edizioni 2021)
Libertà Edizioni Italia https://musicaelibri.net/liberta-edizioni-italia.html
